Congresso Cisl, l’introduzione di William Ballotta al convegno sul modello emiliano
Autorità, gentili ospiti, rappresentanti delle istituzioni, associazioni e partiti, dirigenti di Cgil e Uil, operatori, quadri, dirigenti, iscritti, amiche e amici della Cisl: grazie per aver accettato il nostro invito a partecipare a questo convegno dedicato al modello emiliano e alle politiche richieste da un nuovo assetto territoriale.
Viviamo un tempo di grandi e rapide trasformazioni. Come sapete, anche noi della Cisl abbiamo deciso di cambiare e per questa ragione abbiamo convocato un congresso straordinario, che è cominciato stamattina qui a Reggio Emilia e si conclude domani sera a Modena. Con questo convegno vogliamo riflettere insieme su come si sta trasformando la nostra realtà socio-economica-politica – il cosiddetto “modello emiliano”, appunto –, come possiamo noi della Cisl contribuire ai cambiamenti in atto e quali politiche servano per accompagnare le trasformazioni. Per politiche non mi riferisco solo a quelle della istituzioni pubbliche, in primis la Regione, ma anche a quelle delle parti sociali: associazioni di categoria, sindacati, volontariato, Chiesa ecc.
Partiamo da tre domande:
1. Il modello emiliano, così come l’abbiamo storicamente inteso, è in crisi?
2. Se sì, perché?
3. Se sì, cosa possiamo fare per rilanciarlo?
Guido Caselli e Franco Mosconi potranno dare una prima risposta illustrando dati e analisi. Noi della Cisl diciamo che sì, anche il modello emiliano è in crisi e che per restituirgli slancio bisogna ripartire dal lavoro. Per noi lavoro vuole dire innanzitutto manifattura. Non sto a fare l’elenco delle tante cose che siamo bravi a fare: rischierei di dimenticarne molte e qualcuno potrebbe giustamente restarci male. Si difende bene il manifatturiero orientato all’export, mentre soffre la piccola impresa artigiana in grado di fornire solo il mercato locale. Per queste imprese l’unico rimedio al calo delle commesse è la riduzione della produzione e il ricorso agli ammortizzatori sociali per i lavoratori.
Bisogna tutelare il “saper fare” caratteristico di queste piccole imprese, rafforzando le aggregazioni, in rete e/o in filiera, favorendone la crescita anche dimensionale. L’assioma “piccolo è bello” non vale più, l’emorragia di posti di lavoro nella nostra regione ha colpito soprattutto le piccole e piccolissime imprese, mentre quelle più grandi hanno tenuto. Purtroppo le piccolissime aziende non hanno avuto la forza – o la volontà – di aggregarsi e fare massa critica per raccogliere le risorse necessarie per gli investimenti in innovazione, ricerca e sviluppo.
È peggiorata anche la condizione del lavoro, che nella nostra regione ha sempre avuto livelli più che accettabili. Con l’esplodere della crisi sono aumentate la disoccupazione e la cassa integrazione. Soprattutto sono cresciuti fenomeni come il caporalato, il lavoro grigio e/o nero, la presenza di cooperative che basano la loro capacità di stare sul mercato solo sul basso costo della manodopera. Purtroppo queste cooperative cosiddette “spurie” spesso sono inserite all’interno del ciclo produttivo e/o di filiera di grandi aziende industriali.
Per non parlare della criminalità organizzata, la cui presenza nel nostro territorio è stata confermata anche da recenti inchieste della magistratura.
Un altro fenomeno che ci preoccupa è la fuga dei giovani che, avendo perso la speranza di trovare qui un lavoro stabile e dignitoso, guardano verso altri Paesi – non solo europei. Attenzione, non stiamo parlando di ragazzi che vanno a fare esperienze professionali all’estero per arricchire il proprio curriculum, ma di giovani che non intravvedono un futuro nel nostro territorio e cercano di costruirsene uno all’estero. Spesso sono laureati, hanno conseguito master: abbiamo investito – come Paese – nella loro istruzione e formazione, ma li lasciamo andare via, quasi li costringiamo a emigrare. Se non li mettiamo in condizione di restare, non fuggono solo i cervelli, ma anche mani e braccia…
E qui veniamo all’altro elemento che, insieme al manifatturiero, caratterizza da sempre il modello emiliano: la coesione sociale. Dove il lavoro è stabile e diffuso, il tessuto sociale tiene, la solidarietà è maggiore, la fiducia nel domani cresce, il territorio è competitivo.
Se il lavoro comincia a mancare, come è successo anche qui, ne risente la coesione sociale, l’egoismo sostituisce la solidarietà, il pessimismo prende il sopravvento sulla fiducia, il territorio diventa meno attrattivo. Uno degli strumenti di difesa è il welfare. Sappiamo che quello pubblico è in crisi a causa del costante calo delle risorse. L’idea della Cisl è che occorra rafforzare il welfare aziendale attraverso la contrattazione di secondo livello, aziendale e/o territoriale. Dobbiamo arrivare a un sistema di welfare integrato nel quale l’intervento privato non sostituisce, bensì completa l’intervento pubblico. Ci sono già numerose esperienze interessanti nel nostro territorio che confermano come il welfare possa partire dall’azienda che vuole erogare servizi ai propri dipendenti e, allo stesso tempo, si allarga al territorio in una logica di collaborazione e integrazione.
Quindi, nonostante l’attuale fase di grande difficoltà, possiamo affermare che nel nostro territorio esiste una base per la ricostruzione. Uso questo termine non a caso, ricordando che tre anni fa, proprio in questi giorni, eravamo diventati “territori terremotati”. La base da cui ripartire per ricostruire è il nostro capitale umano e sociale, dal quale deriva una “cultura del saper fare” che il mondo ci ha sempre riconosciuto e, forse, anche invidiato. Del resto, se una multinazionale come la Philip Morris ha deciso di investire 500 milioni di euro a Crespellano significa che, nonostante i problemi, il nostro territorio mantiene ancora un certo appeal. Lo conferma anche la decisione della Lamborghini – cioè del gruppo Volkswagen – di produrre il suo nuovo Suv Urus a S. Agata Bolognese, creando così 500 nuovi posti di lavoro.
Che cosa dobbiamo fare affinché il nostro territorio attragga nuovi investimenti e Lamborghini e Philip Morris non restino casi isolati?
Elenco alcuni titoli, non necessariamente in ordine di importanza, che magari approfondiremo nella tavola rotonda:
Rilanciare la formazione tecnica superiore e la nascita dei tecnopoli, fornendo ai giovani le competenze e conoscenze che servono a una manifattura di alta qualità. Le scuole – università comprese – devono entrare di più nelle aziende e viceversa. La formazione in azienda, anche sulla manualità, deve diventare materia corrente.
Rafforzare le relazioni sindacali e la contrattazione aziendale per sostenere la competitività delle aziende attraverso miglioramenti del processo produttivo, formazione continua dei lavoratori, partecipazione responsabile dei lavoratori alla gestione aziendale.
Attuare politiche attive del lavoro, recuperando le professionalità espulse dai cicli produttivi, con progetti di formazione specifica; non disperdere il capitale umano e la cultura professionale che la tradizione manifatturiera del nostro territorio ha saputo creare.
Mettere in rete le imprese creando filiere produttive e commerciali.
Creare un brand di prodotto collegato al territorio. Abbiamo visto che funziona per i prodotti agroalimentari, proviamo anche per quelli manifatturieri.
Utilizzare meglio i Fondi strutturali europei della programmazione 2014-2020
Sollecitare le multiutility – a partire da Hera – a giocare un ruolo più attivo nello sviluppo del territorio e a sperimentare forme di partecipazione dei lavoratori nell’indirizzo e controllo della società. Non c’è solo la Borsa…
Accelerare i processi di accorpamento e/o fusione tra Comuni, chiarire compiti e ruoli delle ex Province, evitare la concorrenza tra aree limitrofe. Una pubblica amministrazione più efficiente, meno costosa e capace di valorizzare appieno il contributo di idee e progetti provenienti dai dipendenti pubblici è indispensabile se si vuole davvero accrescere la competitività del territorio.
Tutto questo e molto altro possono entrare nel patto per il lavoro che la Regione Emilia-Romagna ha lanciato e che auspichiamo possa trovare a breve una sua condivisione con le parti sociali. A Modena ci siamo, come si suol dire, messi avanti firmando il 29 ottobre scorso il “Patto per la crescita intelligente, sostenibile e inclusiva della città di Modena e del suo territorio”.
Da queste riflessioni vorremmo che si partisse ora con la tavola rotonda.
Grazie per l’attenzione.